...Di certo quella sera, non sarei andato al concerto di
Mussorgsky, se non mi ci avesse condotto la dolce insistenza di quel caro
amico. Egli sapeva arricchire la propria anima di profonde meditazioni, che dalla
musica traevano vivaci forme espressive. Di queste avvincenti meditazioni,
talvolta me ne partecipava il frutto, conducendomi ad incontri di cui,
sinceramente il mio spirito diveniva sempre più desideroso. Destano ogni
volta interesse i suoi modi per «costringermi» ad eventi artistici,
come, nel caso, al concerto di Mussorgsky, richiamando me a me stesso. È
la forza persuasiva dell’amore che si manifesta nel dono...
Del dono, portava il timbro quell’invito. E come dono mi
è giunta la scoperta del grande compositore russo. Portavano del «dono»
il timbro, anche le risonanze melodiche e i ritmi del concerto: “Quadri di
un’esposizione”. La composizione era già, nella sua ispirazione, il
frutto di un rapporto di amicizia squisita fra Mussorgsky e l’architetto e
scenografo Victor Hartmann, scomparso l’anno prima. Qui l’arte diviene
unità di intenti e continuità fra presente ed eterno. Ascoltando
quella musica par di sentire i passi solenni lungo la galleria che mostrava
bozzetti di scenografie e progetti architettonici: ogni passo conduce dal
quotidiano all’assoluto, coinvolge l’ascoltatore, con note taglienti, nel
pianto struggente per la perdita dell’amico e prorompe in accordi la speranza
incrollabile nella risurrezione; chiude infine richiamando tutto il creato nel
silenzio sacro che precede la rivelazione della Verità.
Tra noi accadeva l’evento che l’arte, quando è vera,
sempre ripropone: ciascuno, separatamente, si sentiva avvinto da un medesimo
prisma della Verità, e perciò assieme venivamo attratti alla
medesima fonte artistica.
Spesso per «vero» si intende l’adeguazione della mente ad un
oggetto o comunque ad una realtà (adaequatio rei et intellectus
dicevano gli antichi). Ma – ahimè – forse senza accorgersi per “mente”
spesso si intende soltanto “la ragione” e così per «vero» si finisce per
intendere solo ciò che si può racchiudere in qualche legge
scientifica più o meno conosciuta.
Nella esperienza del dono corrisposto si sperimenta una certa
purificazione della ragione, con l’accendersi di nuove capacità
conoscitive che raggiungono vette o profondità non sperimentate prima.
Le cose cominciano a parlare, entrano in un rapporto armonico con chi le
osserva, talvolta un rapporto di compassione che acuisce il dolore della
solitudine in chi le prende in considerazione, o la melanconia che eccita
l’intuizione poetica. Così passeggiando per Olomouc, con un amico che
alla scuola della macchina fotografica ha imparato l’attenzione ai particolari,
è capitato di soffermarsi ad osservare un muro e sentire un richiamo
profondo che ripete le parole stesse dell’amico: “vedi quel muro? Geme e
soffre per l’umidità e le muffe che divorano il suo colore originario!”
Un senso di abbandono sgorga nel cuore, ed in quell’unità nata dalla
compassione, fiorisce un amore nuovo per la Città e si spalancano gli
occhi per la meraviglia di scorgere in quei cittadini - per noi stranieri – i
lineamenti del fratello arricchiti di forte simpatia.
“Sai? ho imparato l’amore per le città, per ogni
città come fosse la mia, da mio nonno che faceva il muratore. Al mattino
quando andava al lavoro copriva il tragitto da casa al cantiere in giacca e
cravatta, «perché – diceva – vado a costruire le case degli uomini!»: mi
confidava l’amico che passeggiando coinvolgeva il mio occhio in uno sguardo
benevolo verso ogni dettaglio della città. Questo sguardo rendeva ogni
cosa degna di «memoria» come fa appunto la macchina fotografica”
Nulla più del brulicare di individui, che si muovono
riempiendo le vie della città, la rendono statica e chiusa ad ogni
prospettiva; nulla più del “così fan tutti”o del“così
va il mondo” appiattisce culturalmente e spegne umanamente un territorio
urbano. Una finestra socchiusa che evidenzia un fiore sul davanzale; la smorfia
di un passante che osserva un manifesto; una grondaia rotta che attende un
lavoro di restauro; un bambino che esprime col gioco la gioia di sentirsi
amato; una mamma, che spingendo il passeggino della sua creatura, incede sicura
e ricca di motivazioni per vivere, quasi a dire “guardate tutti e osservate
quale speranza di vita sto offrendo al mondo!”; un monumento che apparendo
quasi a sorpresa, ci richiama a momenti gloriosi di storia: tanti «fermo –
immagine» che rendono la città viva e dinamica, un dono per chiunque
voglia immergersi nel fiume della storia.
Quando si entra con l’amico in un rapporto armonico, e gli animi e
le menti si fondono nel cercare il Cielo tra le case, si impara a riconoscere
nella massa informe della città prima una, poi due, poi… mille anime
che, nel linguaggio dell’arte dicono la loro volontà di divenire
trasparenza tra la fonte della luce e le cose che, sotto il loro sguardo,
riacquistano la propria eterna identità.
Trasparenza
alla luce e trasparenza alla Verità: questo il compito dell’artista nell’orizzonte del mondo, sempre
inquieto nel suo continuo e piatto divenire.
La generosità dell’artista non si misura certo con la fatica
di trovare e affinare tecniche espressive, e nemmeno con i traguardi raggiunti
nel perfezionamento della propria personalità o tramite le soluzioni che
sa dare ai problemi dell’esistenza, ma con il coraggio di dire nell’«agorà»
della «polis» il tormento della sua anima che, in unità con il
cosmo, tenta di venire alla Luce. Ogni opera d’arte infatti è un «grido»
che mette a nudo l’anima dell’artista e richiama chi lo ascolta ad orizzonti di
libertà, ad altezze sublimi, perché ricche di significato.
Ora la piazza dell’incontro non è il punto medio di una
città chiusa, alla ricerca della sua identità di Patria:
così, non si tratta più di fondare città nuove, ma di
donare al nostro mondo qualcosa di più nuovo ancora, di risanare e
riconciliare le comunità. Un’Europa ci attende, quale grande Patria di
singole Patrie, e oggi come un tempo fondatori di città saranno i
«vati», poeti, capaci di interpretare il destino del popolo, di riconoscere i
luoghi ed i tempi della patria.
“Questo quadro non lo
posso vendere, o lo dono, o lo tengo presso di me!”: un artista non può alienare una parte di sé, non
può affidare al mercato il segreto di quell’armonia che trasforma le
«pietre in oro». Il rifiuto dell’artista, a cedere il frutto del suo spirito a
chi fa scambio di cose – spesso di valori -, è in fondo proposta ad
entrare nella sua costellazione.
Non è necessario essere artista per comprendere un artista,
o essere capace di entrare nella sua opera, quasi ridiventandone con lui
artefice. Come stelle diverse, chiamate a muoversi nella propria orbita e paghe
della natura che le ha poste, con la loro massa, la storia ed i mille
componenti che le costituiscono, noi siamo chiamati a rapportarci agli altri
nell’armonia di immagini che rendono intelligibile il divino sulla terra, e
comprensibili i vincoli che uniscono gli uomini tra loro. Il fascino delle
costellazioni non è tale da nascondere che le stelle sono «costrette»
nel rapportarsi tra loro in immagini ricche di significato: così la
fatica della quotidianità non è mai tale da offuscare la
sublimità del dono e la libertà di entrare in dialogo con
l’altro.
Gli artisti di questa mostra non sono soggetti solitari alla
ricerca di una individualità che si imponga su altri, e nemmeno un
cenacolo coordinatosi per opportunità. Essi appaiono piuttosto animi
liberi che, alla guisa di Mussorgsky, propongono nel dialogo tra loro e con i
collaboratori, e mediante le opere con il grande pubblico, nuove e più
durature opportunità di coesione fraterna.
Come è capitato al grande musicista russo a conclusione
della visita alla esposizione in memoria di Victor Hartmann, anche a noi
può capitare, avviandoci verso il compimento della mostra, di avvertire
l’animo che trabocca di significati alti, ed il bisogno di esplodere in un
canto o in una fuga di note trionfali, come alla fine di una solenne liturgia…
La casa come un’arca; il giardino come luogo di visioni
profetiche; il lavoro nei campi come annuncio di una nuova messe ricca di
umanesimo; il monte quale luogo di annuncio della verità; il convegno di
uomini e donne riunite nella «festa» messianica; il richiamo ai grandi artisti
che ci hanno preceduto per non dimenticare il destino alto cui siamo chiamati;
musiche lontane che risuonano nell’intimità o nelle solitudini
dell’anima come in una grande assemblea liturgica, per irrorare distese di
sabbia assetate; finestre che congiungono il rimescolarsi della città
con il silenzio pacato e tonificante della famiglia; passione per la vita che
rende vivo il deserto e attuali remote epoche storiche; la storia come libro
che apre pagine un po’ sbiadite e consunte dal tempo divoratore, ma ricche di
segni indelebili… sono le proposte che, nella galleria, si richiamano tra loro
come bimbi che giocano in un prato o come stelle, che si rapportano ad un’unica
grande immagine. Sono proposte che lo spettatore si sente rivolgere, dai tanti
artisti: amici, che segnano questo tempo fortemente impegnato a trovare nuove e
stabili forme di famiglia e il balsamo che può curare le ferite lasciate
aperte dal secolo appena trascorso, e stimoli ed energie per prendere il largo
verso nuovi orizzonti e nuove sorprese della storia.